Lettera alle Amiche e agli Amici

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dopo 5 anni di Casa Famiglia, lo sguardo aperto sul domani 2018-2023 > 5 anni di Casa Famiglia

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2. Camminare tra ‘rabbie’ e cura

  • BAMBINI e RAGAZZI
  • LA QUOTIDIANITÀ
  • LA SCUOLA
  • ADULTI ACCOGLIENTI
  • LA VITA INTERIORE (DIO)

La nostra Casa famiglia vive di questi sogni che sono l’aria che respiriamo, che ci permette di accogliere e ri-accogliere quotidianamente i minori che ci sono affidati nella quotidianità più ordinaria. Vive dei gesti semplici che preparano un bambino/una bambina a diventare uomo/donna. Vive di una compagnia -tra tutti: minori, figli, adulti- che fa intravvedere la promessa e la bellezza della vita.

La Casa famiglia è attraversata da una rete sotterranea di legami e distacchi: camminiamo come aspiranti equilibristi tra le ‘rabbie’ interiori e inconsce dei minori e il nostro prenderci cura.

BAMBINI e RAGAZZI. L’«oggetto» dell’esperienza di una Casa Famiglia -come quella di una Comunità educativa- sono i minori «fuori famiglia», come li definisce la legislazione. I minori «fuori famiglia» sono quei bambini/e, e ragazzi/e che, per gravi motivi genitoriali, sono allontanati dalle loro famiglie, e vengono collocati per un periodo di tempo, in una ‘famiglia’ o in una ‘comunità’ che permetta loro di crescere rispettando i loro bisogni fisici, emotivi-relazionali e intellettivi, per cominciare a costruire così una base sicura per la strutturazione della loro identità. Nelle loro famiglie, infatti, le relazioni sono diventate talmente povere educativamente e/o violente da pregiudicarne la crescita. Comprendiamo tutti come in alcune situazioni di povertà relazionale possa essere utile porre una distanza temporanea tra i componenti della famiglia stessa: separare il figlio/la figlia dai genitori per permettere a tutti di ritrovarsi un giorno, che si spera sempre molto ravvicinato, in una dinamica più adeguata.

Questi bambini/ragazzi sono stati spettatori di litigi e di violenze (quando non li hanno subiti in prima persona), e si sentono più volte traditi dagli adulti di cui si fidavano. Sono bambini/ragazzi che hanno avuto figure di attaccamento primario che non avevano equilibrio, per cui per forza di cose si sono dovuti ‘inventare’ un modo per stare in piedi, per sopravvivere, per non soccombere. Hanno storie così difficili alle spalle che tante volte non riescono a comprendere che cosa sta accadendo ‘dentro’ loro, assumendo così atteggiamenti di sfida, rivalsa, rabbia. Quando purtroppo i legami familiari diventano lacci che opprimono anziché nodi che rassicurano, quando in famiglia si perde la distanza e il rispetto dell’altro, quando il clima familiare si fa cupo e minaccioso, può rendersi necessario un periodo di tregua, di riflessione, di accompagnamento educativo, oltre che sociale e psicologico.

Quando questi ‘figli’ arrivano da noi manifestano un grande bisogno di attenzione insieme a una rabbia inconscia a cui faticano, in un primo momento, a dare nome. È la rabbia di non poter avere un papà e una mamma all’altezza dei propri bisogni e delle proprie esigenze; ma allo stesso tempo la rabbia di chi è stato allontanato da una realtà familiare che, per quanto dolorosa e fragile, è pur sempre la loro famiglia e la vita che era per loro familiare fino a quel momento. Si tratta di un perturbamento che genera insicurezza, sentimenti di solitudine e vuoto, rabbia e desideri di rivalsa. Tutto questo esige di essere ‘accolto’ con rispetto, presenza costante e consapevole, perché da qui si possa ri-partire per costruire il proprio sé, consapevole di ciò che è stato, di ciò che è, di ciò che può essere.

Del resto provate anche solo a immaginare di non poter contare sulla presenza premurosa di un papà, di una mamma, di fratelli e sorelle?[1]

Le opportunità per i minori che l’abitare una Casa Famiglia porta sono queste:

  • abitare una casa con i suoi ritmi: un orario, la pulizia del corpo, il risveglio, i pasti, la sera, il fine settimana e le vacanze strutturate;
  • vivere relazioni, nelle sue potenzialità ma anche nei suoi rischi;
  • accogliere la fatica di stare lontano da padre e madre;
  • attraversare le stagioni del tempo e quelle del cuore;
  • confrontarsi con gli altri
  • sollevare domande e dubbi
  • vivere una scuola dove si è accolti, compresi e aiutati;
  • provare a far sentire una stilla di pace interiore attraverso l’immersione nella campagna e nel fiume come al proprio io più profondo;
  • sentire Dio.

 

QUOTIDIANITÀ. Questi bambini/ragazzi, così come sono, sono accolti nella nostra Casa Famiglia, in una delle nostre due famiglie: riferimento costante, quotidiano, “sul pezzo”, 24 ore su 24, 365 giorni, inverno-primavera, estate-autunno, dentro una storia di famiglia e il ritmo della sua quotidianità.

Per questi bambini e ragazzi la vita quotidiana con i suoi gesti e segni è un valore, ha un senso: la quotidianità «educa», «ci» educa, perché viene ‘vissuta’ con la mediazione delle figure dei genitori e delle educatrici, in continua sinergia tra loro, secondo direzioni pedagogiche. La quotidianità diventa così una grande palestra di apprendimento. Piano piano, emergono nei bambini/ragazzi nuove consapevolezze, che derivano dal riuscire a ‘trasformare in esperienza’ ciò che si vive. Infatti, in casa famiglia ‘si fa esperienza’, dunque si apprende e quindi si cresce perché succedono eventi e si è aiutati a rielaborarli; perché si fanno cose e si è aiutati a scorgerne il senso; perché si compiono attività e si rilegge come ci si è trovati nelle situazioni.

Giorno dopo giorno, la quotidianità si ripete secondo routine che danno un ritmo all’esistenza.

Le azioni che si fanno durante le giornate sono azioni semplici: alzarsi il mattino a un orario fisso e lavarsi in modo adeguato, fare colazione, andare a scuola, vestirsi in modo ordinato, ricordarsi le cose dello zaino, mangiare a pranzo senza alzarsi prima che tutti abbiano terminato, gestire il tempo del dopo scuola, del sabato e della domenica (e dell’estate) dove c’è un tempo per i compiti, e un altro per il divertimento… azioni che in realtà in casa famiglia questi piccoli gesti, ogni attività che fai, ogni parola che viene detta, diventa qualcosa che accende percorsi, fa riflettere, che innesca -spontaneamente- spunti di riflessione.

Con la quotidianità dei bambini/ragazzi, c’è la quotidianità dell’adulto: spese, pranzi e cene per una decina di persone per famiglia, lavatrici perennemente in funzione e tanti “prendi e porta” -per fortuna non alla scuola e alle attività ricreative e sportive, perché tutto questo le facciamo… in Casa, nel vicino Centro educativo e scolastico Sacra Famiglia-, ma agli incontri con le famiglie di origine, con la psicologa o con altri specialisti. Questi incontri non sono solo accompagnamenti da “taxista” perché ogni volta a questo momento si aggiunge un po’ di “movimento di emozioni” che, come adulto di riferimento, va accolto, gestito, elaborato e restituito al bambino/ragazzo.

Questa quotidianità fatta di piccoli gesti diventa abitudine in grado di produrre piccoli cambiamenti nella vita dei bambini/ragazzi. Siamo abituati a pensare che l’arte della cura si esprima in sofisticati setting clinici; in realtà spesso è la condivisione della vita ‘con una intenzionalità educativa’ che ha effetti di cura e di grazia. Inoltre la quotidianità in Casa famiglia educa perché vissuta insieme ad altri amici, esperienza che mixa l’individuale e il collettivo, ossia il gruppo dei compagni ma anche i figli delle famiglie e i loro amici.

E poi ci sono le dinamiche nel gruppo. Ognuno porta il suo pezzo nel rapporto con gli altri. Ognuno ha le proprie necessità, i propri bisogni, le proprie fragilità e tenere in equilibrio il tutto non è facile. Il tutto in una dimensione di orizzontalità: il gruppo educa attraverso confronti e conflitti: a volte gli obiettivi si raggiungono proprio perché, invece di insistere sul singolo ragazzo, si lavora sul gruppo per arrivare al singolo che da solo non sarebbe in grado di reggere.

Nella quotidianità di una Casa famiglia non succedono miracoli, ma talvolta accadono cose che modificano le relazioni. Più di tutto, mediante il fare quotidiano -un fare allestito e presidiato educativamente- si consolida nei bambini/ragazzi quella fiducia interiore che è la base per sperare nel futuro. Si rafforza quella stima di sé che è il serbatoio a cui si attingerà nei momenti di difficoltà. Si capisce inoltre di poter contare sull’aiuto che viene dagli altri, nei momenti in cui si sentirà di non potercela fare con le proprie risorse.

In conclusione, la famiglia che accoglie può efficacemente svolgere questo compito in quanto è un dispositivo organizzativo articolato: fatto di una vita familiare, una équipe di educatori, da una quotidianità presidiata pedagogicamente, da un gruppo di pari che agiscono tra loro una funzione di auto mutuo aiuto. La quotidianità diventa luogo di apprendimenti -sia per l’educatore/genitore, sia per l’educando- nella misura in cui i genitori e gli educatori sanno declinare in modo professionale le proprie competenze.

SCUOLA. La Scuola per ogni figlio/a è un aspetto importante della sua crescita, come luogo di apprendimento ma anche come luogo di esperienza sociale, strutturazione delle emozioni, immaginazione del futuro. È così vero tutto questo che la Scuola è, in piccolo, la società di domani, del futuro. Con le famiglie accoglienti, la Scuola della Cerioli è un presidio importante del nostro progetto per dare a questi ‘figli’ la possibilità di crescere. La Scuola è stata di fatto il grembo di incubazione e di crescita di questo sogno, ma anche la nascita di amicizie inedite, e quotidianamente accoglie i suoi bambini / i ragazzi che diventano parte integrante del gruppo classe.

La collaborazione tra Scuola e Casa Famiglia si sviluppa a livello di Comunità religiosa, di insegnanti e di educatori. Ma c’è un livello che riguarda anche gli studenti: un bambino/ragazzo di Casa Famiglia con la sua vita e la sua storia è una ‘domanda’ aperta per tutti gli altri e, in un certo qual modo, per le famiglie. Si disegna davvero un piccolo laboratorio di vita e, se ben gestito, di società del futuro. Dal basso sta anche nascendo una RETE di famiglie e di insegnanti che amplierà questo progetto.

I bambini e i ragazzi accolti nella Casa Famiglia frequentano la Scuola della Cerioli nella sua dinamica scolastica-didattica, ma anche educativa. Essi sono accolti in una classe, sono accompagnati dagli insegnanti e, a volte, da insegnanti di sostegno e/o educatori. C’è sempre una presentazione agli insegnanti e agli educatori, e una collaborazione con i responsabili della Casa Famiglia. In occasione dell’Ingresso e della Pagella di fine quadrimestre c’è uno scambio proficuo tra Insegnanti ed educatori. Nel corso degli anni abbiamo vissuto un ‘provvidenziale perturbamento’ che ci ha fatti crescere tutti.

Accogliere un bambino/ragazzo in classe non è mai stato facile e scontato[2].

In un incontro con le famiglie, così la dirigente scolastica prof. LUCIANA FERRABOSCHI ha raccontato di quello che accade in classe: “L’arrivo e l’inserimento nella scuola dei bambini della Casa Famiglia, con tutto il carico delle loro fragilità, obbligano la scuola a fare i conti con quelle spinte che PAOLO PERTICARI chiama gli “attesi imprevisti” e cioè fattori evolutivi che non sono predeterminati, per i quali non si sa cosa potrà succedere ma che, nel momento in cui si rapportano al sistema, obbligano il sistema a ristrutturarsi, a cercare un riassetto nuovo. Infatti è in seguito a questi fattori “nuovi e imprevisti” che le insegnanti mettono a punto percorsi altri, cercano nuovi strumenti, ci si accorge che le soluzioni già sperimentate non funzionano e bisogna sostituirle; il tutto per rispondere ai “loro” bisogni educativi speciali ma, come sempre succede in questi casi (e come insegna CANEVARO) le nuove soluzioni che vengono individuate per “loro” si rivelano utili anche per tutti gli altri.

In sintesi, queste esperienze di inclusione permettono di far emergere la cultura delle differenze, quelle degli altri ma anche le nostre, quelle che valutiamo come positive ma anche quelle che non ci piacciono o che vediamo come inconsuete ma che ci fanno capire che tutte queste diversità sono assolutamente legittime. Emerge la prospettiva inclusiva che cambia il modo di guardare: va bene che ci sia apprendimento ma ci sta anche il non-apprendimento, ci stanno i passi in avanti ma anche gli errori che spesso sono le condizioni per inserire nuovi cambiamenti, le situazioni eccezionali diventano situazioni possibili, magari anche difficili da gestire ma legittime per il fatto stesso che fanno parte della realtà.

Ecco perché è importante che ci siano nella scuola i bambini ospiti della Casa Famiglia che sono sicuramente portatori di esperienze diverse, magari hanno appartenenze tragiche, articolate, a volte anche difficili persino da capire ma la loro presenza aiuta noi operatori della scuola a capirci meglio, a modificare le nostre proposte didattiche, a vederci non tanto nelle distanze che ci separano ma nella possibilità di superare tutto quello che può costituire ostacolo o barriera alla crescita e all’apprendimento di tutti e di ciascuno. Per dirla con le parole dei Disabilty Studies: non gli alunni che si adattano e si integrano in ciò che viene loro proposto dall’organizzazione scolastica, ma le abilità differenti dei ragazzini presenti in classe che vengono “offerte” alla scuola come occasione di miglioramento».

Tra Scuola e Casa Famiglia: «la Casa Famiglia è uno degli aspetti che fanno grande la Scuola Sacra Famiglia e che permette di chiudere il cerchio tra il carisma della Sacra Famiglia e l’inclusione sul piano educativo e sociale dei bambini ospiti della Casa. Se non ci fosse, a questa scuola mancherebbe un pezzo importante perché le occasioni di inclusione, pur aumentando la complessità di un sistema in quanto vi inseriscono momenti di disordine, aumentano la capacità di apprendimento del sistema stesso» [3].


ADULTI ACCOGLIENTI. La nostra Casa Famiglia è, attualmente composta, da due unità abitative, collocata dentro il Centro educativo scolastico ma distinte, in uno stile di collaborazione/partenariato delle famiglie con la Congregazione della Sacra Famiglia. È composta da due famiglie, una genitoriale e l’altra monoparentale, ognuna è integrata/supportata dalla collaborazione di due educatrici. La Casa Famiglia serve ad accompagnare ‘quel’ bambino (e di conseguenza la sua famiglia) a ritrovare uno stile di vita adeguato alle necessità evolutive di chi si trova in una fase di crescita quanto mai delicata e a provare a ricostituire equilibri familiari che diano respiro alla soggettività di tutti.

Alle Assistenti sociali chiediamo sempre che cosa si aspettano da noi per la crescita del bambino/ragazzo che ci affidano. La risposta più frequente è questa: «Vi chiediamo di far vivere a questo/a minore ciò che è un suo diritto come bambino/a: vivere una famiglia, con i suoi tempi di vita, avere figure adulte sufficientemente buone». E insieme al bambino/ragazzo, ‘accogliamo’ anche tutta la sua famiglia e questo per due ragioni: perché chi entra in casa famiglia porta in sé e con sé quel mondo, e perché quel bambino/quella ragazza in qualche modo dovrà tornare alla propria famiglia o a un’altra famiglia. Magari solo idealmente oppure fisicamente. Magari dopo pochi giorni oppure dopo diversi anni. In ogni caso i conti (i conti interiori) con la sua famiglia li dovrà fare!

COME PERSONE. Nel corso di questi anni abbiamo sperimentato lo scegliere di ‘esserci’ con i nostri doni ma anche con i nostri limiti; vivere 24 ore su 24 facendo famiglia con persone che provengono da situazioni di disagio, le più diverse. Non è un dare qualcosa, è essere, esserci, diventare ‘genitori’ che scelgono di rispondere alla necessità essenziale e profonda di chi viene accolto: il bisogno di sentirsi amati da qualcuno, di essere importante per qualcuno. È la relazione significativa e individualizzata con noi genitori e le relazioni che nascono fra le persone accolte che creano quell’ambiente terapeutico che lenisce e cura le ferite, rigenera nell’amore, riaccende la speranza nella vita. Le persone non si sentono più degli assistiti, ma persone scelte, stimate e amate. Ognuna insegna e impara, e ci si rende conto che non c’è chi salva e che è salvato, ma che ciascuna persona può essere una ricchezza per gli altri e che ci si salva se si cresce insieme.

Con alcune bambini/ragazzi abbiamo fatto un pezzo di strada insieme, li abbiamo accompagnati o verso un rientro in famiglia di origine, o verso una famiglia affidataria, oppure verso l’autonomia. Alcuni sono ancora con noi. Ora la nostra avventura continua qui dove siamo nati, vivendo nella quotidianità la gioia e la fatica della condivisione diretta.

COME COMUNITÀ. Nel corso di questi anni abbiamo sperimentato l’importanza dell’équipe educativa per la vita della Casa Famiglia, indispensabile sostegno all’agire delle singole vite, perché la relazione educativa è un compito complesso “che si fa mentre le cose accadono”; e dove la scena educativa è in costante evoluzione, e le emozioni colorano e talvolta incendiano tutta la scena di lavoro servono pensiero e occhi di tutti/sguardo comune/sguardo complessivo.

La nostra équipe educativa prova a muoversi come gruppo di lavoro e non come somma di individui, per quanto formati e preparati. Questo è un punto metodologico forte, uno dei pilastri della nostra efficacia educativa. Non basta mettere insieme delle persone per quanto preparate per fare un’équipe, essa deve funzionare bene, perché se cosi non è, salta. E sono i bambini/i ragazzi a farla saltare. Cerchiamo per questo di far crescere un pensiero condiviso, essere una mente collettiva per far fronte alle inevitabili perturbazioni della vita!

Essere un’équipe aiuta anche noi a non cadere nelle provocazioni che i bambini/i ragazzi e le loro famiglie mettono in atto. E a ripristinare una relazione dove l’adulto è portatore di intenzioni educative, si assume responsabilità sugli esiti della relazione, mentre il bambino può permettersi di fare il bambino senza depotenziare l’adulto della sua capacità educativa.

Siamo équipe che prova a depotenziare, contenere, ridare senso alla distruttività che alcuni bambini o ragazzi ‘agiscono’ è un processo delicatissimo, che necessita di una équipe.  Se lasciato alla buona volontà, c’è il rischio di scivolare in comportamenti aggressivi o espulsivi nei loro confronti. Riuscire invece a mantenere un atteggiamento e uno sguardo educativi anche quando ci si arrabbia, anche quando non ce la si fa più, e si ha voglia di staccare… è il segno di una équipe funzionante.

Siamo équipe che cerca di condividere riflessioni sulle modalità manipolative delle relazioni, dove se ci finisci dentro non riesci più a costruire un lavoro educativo efficace con il ragazzino e con la sua famiglia.

Nel corso di questi anni, inoltre, abbiamo sperimentato l’efficacia della SUPERVISIONE per affinare lo sguardo ed entrare in profonda connessione con ciò che accade nella relazione educativa. Infatti la nostra professionalità si esprime anche attraverso il continuo lavoro su noi stessi come operatori -attraverso una supervisione mensile- perché la relazione è il nostro principale strumento di lavoro e ci mette di fronte anche al nostro vissuto e alle nostre fragilità, oltre che a quelle dei bambini/adolescenti. È diffusa la banalizzazione secondo cui basta <buon cuore> per lavorare in Casa Famiglia. In realtà servono COMPETENZE PROFESSIONALI e RELAZIONALI che sono cognitive ed emotive: se un figlio/a sfida necessariamente i genitori per imparare a crescere, qui la sfida è ancora più grande perché tu non sei il suo genitore; perché c’è una rabbia legata alla separazione dai genitori; perché c’è la dinamica della crescita. Servono competenze COGNITIVE perché è necessaria una continua elaborazione e ri-calibrazione dei tuoi posizionamenti strategici. Servono dunque competenze EMOTIVE perché bisogna essere capaci di stare in situazioni impegnative, dove si è sfidati, provocati, attaccati. Se tu educatore entri in simmetria con il ragazzo o con la famiglia, smetti di agire una funzione educativa.

Abbiamo individuato tre aree in cui declinare le competenze professionali e relazionali:

Serve sapere ricostruire affidabilità nelle relazioni: malgrado i tradimenti che i ragazzini hanno esperito, si tenta di ricostruire un rinnovato senso di fiducia negli altri, nel mondo, nella vita;

Serve saper gestire l’affettività: con queste storie è più importante essere affettivi che affettuosi” proprio perché molti minori hanno vissuto esperienze traumatiche nella sfera-emotiva affettiva, hanno bisogno di sperimentare una prossimità che non li spaventi, ma li rassicuri.

Serve saper agire una funzione riflessiva rispetto alle cose che accadono: per restituire spessore a eventi e situazioni che cessano di essere banali nel momento in cui vengono investiti dal pensiero e si riesce così a rielaborarli, simbolizzarli, attribuirvi senso.

Servono dedizione, preparazione e una grande motivazione che vada oltre il “mi piacciono i bambini”, perché davvero non basta. Per questo per accoglierli in modo autentico, occorre abbinare alla ‘professione’ che porta con sé un grande impegno sia fisico che emotivo, una grande sensibilità.

Del resto provate anche solo a immaginare di non poter contare sulla presenza premurosa di un papà, di una mamma, di fratelli e sorelle?[4]

Le opportunità per gli adulti che l’abitare una Casa Famiglia porta sono queste:

  • ascoltare con una intenzionalità educativa;
  • osservare con uno sguardo magnanimo;
  • agire sviluppando senso critico sulle azioni;
  • provare a far crescere gruppo e affetti;
  • orientare alla interiorità/spiritualità: Noi che siamo cristiani, cosa dobbiamo fare e dire dei nostri ‘segni’ con bambini che magari sono anche musulmani?
  • custodire e far crescere l’umano comune

 

LA VITA INTERIORE/SPIRITUALE (DIO). C’è in ognuno di noi un luogo che tendiamo a considerare come nostro, unico, intimo, nel quale riconoscerci per mantenere la fiducia e la certezza nella nostra esistenza. Mentre ci identifichiamo con noi stessi, le cose, le esperienze e le relazioni concorrono a costituire la nostra vita interiore quasi come un contenitore attraverso il quale riusciamo a sentirci, pensarci, pur riconoscendo che in ogni caso una parte di noi ci sfugge e non siamo in grado in molti casi di portarla alla luce.

Lo studioso Eugenio Borgna[5] fa rilevare come avvertiamo dentro di noi una sorta di predisposizione naturale e spontanea al sentimento di autocoscienza di noi stessi soprattutto allorché percepiamo la nostra unicità e la sentiamo come un valore da difendere e da salvaguardare, tanto da sentire con certezza di averla dentro. È per tale ragione che l’interiorità può essere a noi presente sia come luogo fisico sia come luogo simbolico di noi stessi, nel senso che essa ci è presente tanto come oggetto quanto come soggetto orientato a confrontarsi con la parte più intima di sé, con quegli aspetti che in molti casi si manifestano come parti sotterranee di noi, mutazioni, trasformazioni e trasalimenti del nostro essere.

I bambini/ragazzi della Casa Famiglia hanno una attitudine all’interiorità molto spiccata perché le prove della vita li ha affinati: e custodire l’interiorità sarà la loro salvezza! Come educatori ciò implica abilitarli a sviluppare la consapevolezza dei problemi, delle paure e degli smarrimenti che l’uomo avverte di fronte a sé stesso, al senso della vita, dell’amore e della morte, ma anche nei confronti della ricerca della verità, in considerazione del fatto che l’educazione non coincide con l’individuazione di risposte predeterminate valide per tutte le situazioni né con affermazioni di principio prive di ricadute sulla vita personale.

Dentro a questa ricerca di sé, di tanto in tanto, noi parliamo e preghiamo Gesù e come ci abbia rivelato il Padre dei cieli, per non privare questi figli di un tesoro prezioso per la loro vita.

 

[1] Che cosa accade a un bambino o a una bambina che sente vacillare l’abbraccio della madre e/o del padre? Che avverte di non sentirsi più al sicuro?
Il sentimento della fiducia si indebolisce e si sperimenta la solitudine, il timore di non avere più un luogo proprio. Nessuna vita mette completamente al riparo da questi momenti, ma essenziale è che non siano di una tale intensità e durata da divenire insostenibili. Ci sono situazioni in cui la fiducia nella vita è a rischio.
Quando a un bambino o a una bambina qualcuno, non conosciuto, dice che la mamma e/o il papà non possono più costituire la sua famiglia e che per questo devono andare altrove, in un’altra famiglia che non conoscono, cosa accade nella loro mente? Quali pensieri si affollano e quali emozioni invadono? Quali domande sommergono il pensare? Probabilmente ci si sente come se la terra franasse, si patisce un vuoto, si sente mancare la possibilità di essere tenuti là dove si sé, nel luogo che si conosce, con le voci e i gesti abituali.
Un tremore silenzioso ma fragoroso può prendere la mente, e poi forse tante domande: dove andrò? con chi sarò? cosa mi aspetta? mi vorranno bene? Se il tempo di mezzo fra l’essere nella famiglia originaria e il trovarsi in una nuova dura molto e, poi, se il luogo dove si andrà non sarà percepito come accogliente, la sofferenza diventerà pesante e consumerà l’energia vitale, la fiducia. 
L’esperienza dell’affido familiare richiede, dunque, il massimo dell’attenzione, il massimo della cura. È necessaria una politica del prendersi cura dell’altro, che deve costruire al meglio le condizioni per far sentire bene chi sta affrontando un passo estremamente difficile della vita (Luigina MORTARI).

[2] MIUR, Linee guida per l’accoglienza di minori fuori famiglia nella scuola italiana.

[3] Un’idea ‘generativa’ di Scuola e di Educazione, sulla quale la Comunità educante sempre si interroga e deve sempre condividere: per noi questa idea di scuola e di educazione è plasmata dal riferimento valoriale e normativo dell’esperienza e all’idea di santa Paola Elisabetta, per la quale la scuola -usando categorie contemporanee- deve abilitare alla vita, cioè promuovere competenze per la vita. Nella scuola degli ultimi decenni abbiamo assistito a una “rivoluzione copernicana” sviluppata su più livelli: di fronte all’apertura dei saperi all’accessibilità della rete digitale: la scuola, un tempo unico avamposto del sapere, si è trovata a dovere operare in un contesto ben più articolato in cui altre agenzie e luoghi di apprendimento promuovevano lo sviluppo di conoscenze formali e informali spendibili nel mondo del lavoro.
Oggi quindi la diffusione pervasiva della rete ha reso la conoscenza accessibile in modo diffuso smantellando il totem SCUOLA come unico luogo del sapere e quindi di riscatto sociale. Competenze chiave, competenze trasversali, soft skill, … sono solo alcuni dei modi con cui si cerca di codificare una serie di competenze richieste per svolgere una professione ed esercitare una cittadinanza attiva nella società della conoscenza. Una scuola aperta all’evoluzione dei saperi e dei metodi è in grado di cogliere e accogliere il cambiamento, permettendo alla propria comunità di ‘modernizzare’ il servizio scolastico in sinergia con le richieste del territorio all’altezza del futuro che ci attende. Avere valorizzato nel tempo il profilo educativo dell’Insegnante e avere nelle nostre Scuole le figure degli educatori ci ha permesso di tenere in equilibrio questi aspetti della didattica e dell’educazione.

[4] Che cosa accade a un bambino o a una bambina che sente vacillare l’abbraccio della madre e/o del padre? Che avverte di non sentirsi più al sicuro?
Il sentimento della fiducia si indebolisce e si sperimenta la solitudine, il timore di non avere più un luogo proprio. Nessuna vita mette completamente al riparo da questi momenti, ma essenziale è che non siano di una tale intensità e durata da divenire insostenibili. Ci sono situazioni in cui la fiducia nella vita è a rischio.
Quando a un bambino o a una bambina qualcuno, non conosciuto, dice che la mamma e/o il papà non possono più costituire la sua famiglia e che per questo devono andare altrove, in un’altra famiglia che non conoscono, cosa accade nella loro mente? Quali pensieri si affollano e quali emozioni invadono? Quali domande sommergono il pensare? Probabilmente ci si sente come se la terra franasse, si patisce un vuoto, si sente mancare la possibilità di essere tenuti là dove si sé, nel luogo che si conosce, con le voci e i gesti abituali.
Un tremore silenzioso ma fragoroso può prendere la mente, e poi forse tante domande: dove andrò? con chi sarò? cosa mi aspetta? mi vorranno bene? Se il tempo di mezzo fra l’essere nella famiglia originaria e il trovarsi in una nuova dura molto e, poi, se il luogo dove si andrà non sarà percepito come accogliente, la sofferenza diventerà pesante e consumerà l’energia vitale, la fiducia. 
L’esperienza dell’affido familiare richiede, dunque, il massimo dell’attenzione, il massimo della cura. È necessaria una politica del prendersi cura dell’altro, che deve costruire al meglio le condizioni per far sentire bene chi sta affrontando un passo estremamente difficile della vita (Luigina MORTARI).

[5] E. Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli, Milano 2005; Id., Noi siamo un colloquio: gli orizzonti della conoscenza e della cura in psichiatria, Feltrinelli, Milano 1999.

Foto di Christiane da Pixabay

 

Autore
  • La Redazione
Data
  • 27/12/2023
Rubrica
  • Agli Amici
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